Il termine stagflazione è tornato a imporsi nel vocabolario degli economisti, degli strategist e dei grandi investitori globali. Dopo un lungo oblio, durante il quale sembrava appartenere a un’epoca irripetibile della storia economica, oggi quel concetto carico di implicazioni si ripresenta con forza, alimentato da segnali macroeconomici chiari e da un contesto geopolitico sempre più complesso. La combinazione di crescita fiacca e inflazione persistente sta prendendo forma in più economie avanzate, mentre l’efficacia delle politiche monetarie restrittive si dimostra limitata e frammentata, generando un clima di profonda incertezza sui mercati finanziari.
A spingere in questa direzione sono fattori molteplici: la volatilità dei prezzi dell’energia, il ritorno delle politiche industriali nazionali, il rallentamento della domanda globale e il riassetto delle catene di approvvigionamento dopo la pandemia e le crisi geopolitiche. Gli investitori, in risposta, stanno già ricalibrando i portafogli: si osserva un’evidente rotazione settoriale verso comparti più resilienti come utility, farmaceutico e real estate, mentre crescono gli acquisti di asset rifugio e si accorcia la duration obbligazionaria. Segnali che preludono a una stagione difensiva in cui la ricerca di stabilità supera l’ottica di rendimento.
Il contesto non è privo di analogie storiche. Per comprendere la portata del fenomeno attuale, è utile ricordare il decennio oscuro dell’economia occidentale, quello degli anni Settanta, in cui l’innesco fu uno shock petrolifero, ma la spirale si alimentò con rigidità strutturali, politiche fiscali eccessivamente espansive e una scarsa reattività della politica monetaria. Negli Stati Uniti, tra il 1973 e il 1981, l’inflazione superò a più riprese il 10% su base annua, mentre la disoccupazione volava sopra l’8% e la produttività ristagnava. Fu necessario l’intervento deciso della Federal Reserve sotto la guida di Paul Volcker, che alzò i tassi d’interesse fino al 20% nel 1981, accettando il costo di una dura recessione pur di riportare l’inflazione sotto controllo. Oggi lo scenario è diverso, certo: la digitalizzazione, la globalizzazione parziale e la trasformazione demografica giocano un ruolo, ma alcune dinamiche – come l’aumento dei salari nominali, l’erosione del potere d’acquisto e la rinazionalizzazione delle supply chain – fanno temere un ritorno di stagflazione, seppur in una forma più “soft” e frammentata.
Le recenti previsioni del Fondo Monetario Internazionale, aggiornate nel World Economic Outlook di aprile, offrono un’ulteriore validazione a questa narrazione. La crescita globale per il 2025 è stata rivista al ribasso: dal +3,3% previsto, a gennaio si scende al +2,8% con tagli significativi anche per le principali economie avanzate. Gli Stati Uniti sono attesi a +1,8%, in calo di sei decimi, il Canada a +1,4%, la Corea del Sud addirittura in negativo a -0,3% e il Messico vede una drastica revisione da +1,5% a -0,3%. In Europa, il quadro non è meno preoccupante, sebbene meno drammatico: l’Italia è prevista in timida ripresa con un +0,4% nel 2025 in calo dopo il +0,7 del 2024, la Germania con il -0,2% del 2024 rimane più o meno stabile, mentre Francia e Spagna viaggiano rispettivamente al +0,6% e +2,5%. Sono i Paesi emergenti a sostenere la media mondiale, con l’India al +6,2%, l’Indonesia al +4,7% e la Polonia al +3,2%, ma anche in queste economie il rischio inflazione non è ancora sotto controllo.
A rafforzare l’ipotesi stagflattiva è anche la struttura della curva dei rendimenti americana. Il differenziale tra i Treasury a 2 e 10 anni – ossia la differenza tra i tassi offerti dai titoli di Stato statunitensi a breve e lungo termine – è negativo da oltre dieci mesi consecutivi, un’anomalia chiamata “inversione della curva” che storicamente ha anticipato ogni recessione USA dal dopoguerra a oggi. Questo tipo di segnale è letto dal mercato come il sintomo di un’economia in cui le aspettative future sono più cupe rispetto alla situazione corrente, e dunque gli investitori chiedono un premio di rendimento maggiore per il rischio immediato rispetto a quello di lungo periodo. Una configurazione rara, ma potentemente predittiva.
In questo quadro, l’oro ha superato la soglia psicologica dei 3.000 dollari l’oncia, il prezzo attuale dell’oro è di 3.393,4 dollari dollari l’oncia, toccando nuovi massimi storici. A sostenerne la corsa è la doppia domanda di copertura: da una parte quella retail, legata alla protezione dall’inflazione, e dall’altra quella istituzionale, con le banche centrali – in particolare quelle di Cina, India e Brasile – che stanno continuando a diversificare le riserve valutare, riducendo l’esposizione al dollaro.
Le banche centrali si trovano oggi in un vicolo difficile da percorrere. La Federal Reserve, per voce di Jerome Powell, continua a sottolineare l’approccio “data-dependent” e la necessità di monitorare l’evoluzione dell’inflazione prima di avviare un ciclo di allentamento. Tuttavia, i mercati hanno già cominciato a prezzare possibili tagli nella seconda metà del 2025. In Europa, la presidente della BCE Christine Lagarde ha assunto un atteggiamento più cauto: si ipotizza un primo taglio verso la fine dell’anno, ma molto dipenderà dalla resilienza dell’economia tedesca e dalla tenuta dei consumi nel blocco euro.
Sul piano politico, lo scenario che si apre è altrettanto complesso. La tentazione di politiche fiscali espansive per stimolare la crescita si scontra con i limiti imposti da un’inflazione ancora viva e con l’imperativo di stabilità di bilancio in Europa. Nei mercati emergenti, le pressioni valutarie derivanti dal rafforzamento del dollaro potrebbero portare a nuove instabilità sociali e finanziarie, con conseguenze imprevedibili sugli equilibri globali. In questo quadro, la diplomazia energetica torna centrale: le tensioni in Medio Oriente, il fragile equilibrio dei flussi energetici dalla Russia e le nuove alleanze asiatiche rendono il prezzo dell’energia un elemento geopolitico prima ancora che economico.
Il mondo non è quello degli anni Settanta, ma gli strumenti per fronteggiare una nuova stagflazione potrebbero non essere molto diversi. Serve lucidità, serve disciplina, serve visione. E serve la consapevolezza che uscire da una fase di stagnazione inflattiva richiede tempo, coerenza e una politica economica in grado di adattarsi con flessibilità a un mondo che cambia più velocemente delle sue regole.