Jorge Mario Bergoglio, figlio di immigrati italiani, nasce il 17 dicembre 1936 a Buenos Aires. Cresce in un quartiere semplice, in una famiglia di lavoratori, dove il valore del dovere e la forza della fede si intrecciano con la quotidianità. Sin da giovane entra nei gesuiti, l’ordine più intellettuale e missionario della Chiesa, dove affina una spiritualità rigorosa, fatta di silenzio, discernimento e servizio. Il suo percorso sacerdotale attraversa le stagioni più oscure dell’Argentina, tra la dittatura militare e le profonde disuguaglianze sociali. Le sue prime esperienze pastorali nelle villas miserias, le baraccopoli di Buenos Aires, forgiano un uomo di Chiesa lontano dai formalismi, vicino al dolore, testimone diretto della carne sofferente del popolo. Arcivescovo della capitale argentina dal 1998, è creato cardinale da Giovanni Paolo II nel 2001. Ma è nel conclave del 2013, dopo le storiche dimissioni di Benedetto XVI, che il mondo sente pronunciare un nome mai udito prima: Francesco. Il nome del poverello di Assisi. Il nome di una rivoluzione.
Fin dal primo giorno, Francesco rompe il cerimoniale. Il suo “buonasera” dalla Loggia di San Pietro, il rifiuto del trono papale, la croce di ferro invece dell’oro, sono più che simboli: sono dichiarazioni di intenti. È il Papa del gesto prima ancora che della parola. Il suo pontificato si snoda in una continua tensione tra Vangelo e storia. Non è un teologo accademico, ma un pastore di anime. Non ama le definizioni astratte, ma le domande concrete. Con Evangelii Gaudium getta le basi di un nuovo paradigma ecclesiale: una Chiesa “in uscita”, ospedale da campo, luogo di accoglienza più che di giudizio. Con Laudato si’ dà voce al grido della Terra e dei poveri, denunciando l’inquinamento dell’ambiente come riflesso dell’inquinamento dell’anima. In Fratelli tutti, la sua ultima grande enciclica, disegna un’etica universale della fraternità in un mondo disgregato da muri, guerre e individualismi.
Francesco ha incarnato un pontificato di confine, geograficamente e simbolicamente. Non europeo, non legato alle logiche della Curia romana, ha rappresentato un’apertura verso il Sud globale e verso le questioni lasciate ai margini dai pontificati precedenti. Ha visitato luoghi dimenticati: Lampedusa, Bangui, Lesbo, l’Iraq. Ha denunciato con forza “la globalizzazione dell’indifferenza”, ha parlato senza filtri davanti ai grandi della terra. Ha promosso il dialogo interreligioso come urgenza spirituale e geopolitica, incontrando leader musulmani, ebrei, buddisti, cercando sempre il terreno comune dell’umano.
Nel Sinodo per l’Amazzonia ha portato la voce dei popoli indigeni dentro la Basilica Vaticana, ascoltando un’umanità spesso schiacciata dal progresso cieco. In ogni sua azione, Francesco ha cercato di riportare il centro della Chiesa verso le periferie, non come gesto compassionevole, ma come atto di giustizia.
Il suo è stato anche un pontificato profondamente controverso. Ha toccato nervi scoperti dentro la Chiesa stessa. Le aperture pastorali ai divorziati risposati, la possibilità di accogliere le persone LGBTQ+ che cercano cristo senza ipocrisie, la lotta contro la rigidità liturgica, hanno suscitato opposizioni feroci nei settori più conservatori. Ha affrontato con dolore e determinazione la crisi degli abusi sessuali nella Chiesa. Seppur accusato talvolta di lentezza o ambiguità, è stato il primo Pontefice a parlare pubblicamente di “tolleranza zero”, a incontrare le vittime, a obbligare vescovi e cardinali a dimettersi per negligenza.
Anche sul piano della governance vaticana ha tentato una riforma profonda della Curia, rendendola più snella, trasparente e missionaria. Un processo non concluso, ma avviato con coraggio, in una macchina ecclesiastica spesso riluttante a ogni cambiamento.
Papa Francesco lascia una Chiesa meno autoreferenziale, più inquieta, ma più vicina all’essenziale. Non ha risolto tutti i nodi dottrinali, ma ha spostato il baricentro: dalla legge alla misericordia, dalla condanna all’ascolto, dal potere al servizio.
Ha restituito al cristianesimo la sua forza originaria: non come religione del prestigio, ma come cammino con l’altro. Ha promosso una “sinodalità” concreta, cercando di dare voce al popolo di Dio, ai laici, alle donne, alle comunità locali, ai movimenti popolari. La sua idea di autorità è stata profondamente decentrata: un’autorità che accompagna, non che domina. Francesco ha aperto domande che ora toccherà ai suoi successori raccogliere. La sua eredità non è fatta di dogmi nuovi, ma di orizzonti aperti. Ci ha mostrato che la fede può essere radicale senza essere rigida, profonda senza essere cupa, rivoluzionaria senza perdere la tenerezza.
Ora che Francesco ci ha lasciati, il suo tempo resta impresso non solo nella storia della Chiesa, ma in quella dell’umanità. La sua voce, a volte dolce, a volte profetica, ha attraversato barriere ideologiche, religiose, culturali. Ha parlato all’essere umano prima che al credente, da prototipo evangelizzatore.
Il suo ritorno alla casa del padre non è soltanto la fine di un pontificato, è l’inizio di un compito per chi gli succederà.
Francesco non ha offerto risposte comode, ma ha aperto spazi di responsabilità condivisa, ci ha insegnato che il Vangelo non è una dottrina morta, ma una passione viva per l’altro.
Il Papa che venne dalla fine del mondo ha trasformato il papato in una chiamata alla prossimità. E questa chiamata, oggi, è più avvertita che mai.