L’introduzione di dazi sui prodotti agroalimentari europei da parte degli Stati Uniti, voluta con decisione dall’amministrazione Trump, ha già iniziato a produrre i suoi effetti. E non si tratta, almeno nell’immediato, di effetti positivi.
Come in ogni guerra – e quella commerciale non fa eccezione – alla fine si perde tutti. Il primo impatto visibile è stato un’accelerazione degli acquisti da parte degli importatori americani, che hanno letteralmente riempito i magazzini nei mesi tra la fine dello scorso anno e l’inizio di quest’anno, per anticipare l’entrata in vigore delle imposte. Anche il prosecco, ad esempio, ha segnato un incremento tra il 15% e il 18% nei mesi tra gennaio e marzo, salvo poi registrare un blocco quasi totale delle importazioni.
Nonostante ciò, continuo a credere che alla fine prevarrà il buonsenso. Occorre però guardare nel lungo periodo, ragionando in chiave strategica come Paese, ma anche come Europa. È l’unica via per dare un messaggio forte e chiaro anche agli Stati Uniti: il comparto agroalimentare europeo non può essere usato come merce di scambio per equilibri di politica finanziaria internazionale.
Trump, infatti, sembra usare i dazi come arma per ottenere l’acquisto del proprio debito pubblico, oggi in gran parte in mano a Cina, Giappone, Regno Unito e Paesi UE. Se le aste di titoli federali non vanno a buon fine, manca una valvola di sicurezza per sostenere l’economia americana.
Il rischio però è che, nel mezzo, vengano danneggiati settori fondamentali per l’economia e l’identità del nostro Paese: penso al vino, ma anche ai formaggi e ai prodotti trasformati. Non possiamo permetterci di subire passivamente queste dinamiche.
Come ricordano i dati del Report Enpaia-Censis presentato a Vinitaly, negli ultimi dieci anni il vino italiano ha conosciuto un’espansione notevole sui mercati internazionali, grazie a un’offerta sempre più orientata alla qualità e alla valorizzazione delle tipicità. È cresciuta molto, in particolare, la tipologia degli spumanti, che oggi rappresentano non solo una grande quota di export ma anche un simbolo vincente della nostra cultura enogastronomica.
Non si tratta solo di prosecco. L’Italia, infatti sta diventando un punto di riferimento mondiale per gli spumanti di qualità, legati al territorio, alla tradizione e a uno stile di vita che il mondo ci riconosce. Pensiamo al messaggio racchiuso nella dieta mediterranea: è sinonimo di benessere, equilibrio e gusto. Anche il vino, in questo contesto, ha un ruolo centrale, come ricordato anche dal Report Enpaia-Censis.
La crescita dei consumi abituali di vino in Italia, quasi 5 punti negli ultimi dieci anni, testimonia la riscoperta di una cultura del bere consapevole, legata alla qualità più che alla quantità. È proprio su questa identità che dobbiamo continuare a puntare.
Il calo previsto delle vendite negli Stati Uniti – qualora i dazi dovessero restare – non potrà essere compensato da un giorno all’altro, perché il mercato americano ha una delle economie più forti del mondo, una popolazione con alto reddito medio e consumatori attenti, che ricercano prodotti autentici e di alta qualità.
Tuttavia, ci sono spazi di crescita in altri scenari. Penso soprattutto ai Paesi dell’Estremo Oriente, con economie dinamiche e in espansione, e ai Paesi africani, dove comincia a emergere un interesse verso il vino e l’agroalimentare italiano. In particolare, in quelle aree dove c’è stata una forte influenza culturale europea, possiamo immaginare l’apertura di nuovi mercati per i nostri vini.
Naturalmente, questi percorsi richiedono tempo e investimenti, ma rappresentano un’opportunità importante anche in un’ottica comunitaria di promozione del made in Italy.
Credo che alla fine si troverà un punto di equilibrio. In ogni caso, il settore vitivinicolo italiano ha dimostrato più volte una grande capacità di adattamento e resilienza. Sapremo riorganizzarci, rafforzare le nostre alleanze commerciali, e continuare a raccontare, attraverso il vino, la storia e la cultura del nostro Paese.
In questo momento, più che mai, è necessario agire in modo coeso: imprese, istituzioni e organismi europei devono lavorare insieme. Solo così potremo trasformare una crisi in un’opportunità.