Nell’ultima settimana, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha compiuto una serie di mosse economiche che hanno scosso i mercati finanziari e suscitato preoccupazioni riguardo a possibili conflitti di interesse, un’altalena che rischia di avere effetti devastanti sull’economia internazionale. Da un’analisi cronologica si evince una strategia più da Lupo di Wall Street che da presidente di una tra le più grandi potenze mondiali.
Il 2 aprile infatti, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato un pacchetto di nuovi dazi doganali che ha scosso profondamente gli equilibri economici internazionali. L’intervento ha riguardato una serie di settori chiave per l’economia globale: le importazioni di acciaio e alluminio sono state tassate con una tariffa del 50%, raddoppiando la precedente soglia del 25%, mentre sono stati imposti dazi del 25% sui semiconduttori, sui prodotti farmaceutici e su tutte le autovetture importate da Cina, Europa e Messico. Queste misure, ufficialmente giustificate come protezione dell’industria manifatturiera americana dalla concorrenza sleale estera, sono state immediatamente interpretate dai mercati come un’escalation della guerra commerciale e una minaccia alla stabilità degli scambi globali.
Le ripercussioni sui mercati non si sono fatte attendere: il 3 aprile, il Nikkei 225 di Tokyo ha chiuso a -3,24%, l’Hang Seng di Hong Kong a -2,08% e l’indice cinese CSI 300 ha segnato un -0,66%. In Europa, lo Stoxx 600 ha aperto in netto calo, con le aziende logistiche e automobilistiche tra le più penalizzate: Maersk ha perso il 7,55% in una sola seduta, mentre il comparto automobilistico europeo ha registrato un ribasso medio dello 0,6% dopo una discesa iniziale superiore al 2%. Anche il dollaro USA ha reagito in modo volatile: mentre ha guadagnato terreno rispetto al peso messicano e al dollaro canadese, ha toccato un minimo decennale contro il franco svizzero, segnale della corsa degli investitori verso asset rifugio. L’effetto domino ha raggiunto anche Wall Street, che ha chiuso in flessione il 4 aprile con il Dow Jones a -1,8%, l’S&P 500 a -2,3% e il Nasdaq a -2,6%. Le stime di Goldman Sachs, pubblicate il giorno successivo, hanno indicato un possibile impatto negativo sugli utili delle aziende dell’S&P 500 compreso tra l’1% e il 2% per il secondo trimestre.
Il 9 aprile invece, contro ogni pronostico e in un clima di crescente tensione diplomatica, il Tycoon Trump ha annunciato una sospensione di 90 giorni per l’implementazione di ulteriori dazi, mantenendo però in vigore quelli già imposti alla Cina, nemico numero uno. Il cambiamento repentino di strategia ha sorpreso analisti e investitori, anche se qualcuno tra loro aveva anticipato le decisioni politiche, provocando un improvviso rally dei mercati: nella stessa giornata quindi l’S&P 500 ha segnato un balzo del 9,5%, il Nasdaq è salito dell’11,1% e il Dow Jones ha chiuso a +8,2%. Anche i mercati europei hanno reagito positivamente, con il DAX tedesco a +6,4% e il CAC 40 francese a +5,7%. Nello stesso giorno poi, Trump ha pubblicato un post su Truth Social – la piattaforma social della sua compagnia media – in cui esortava gli americani ad “approfittare delle grandi opportunità sul mercato”, firmando con l’acronimo “DJT”, che è anche il ticker della sua società quotata. Questo dettaglio ha subito sollevato dubbi su possibili operazioni speculative orchestrate in parallelo a decisioni di politica economica. Secondo un’analisi di Reuters, sono stati effettuati acquisti sospetti di opzioni call su società tecnologiche e industriali il giorno prima dell’annuncio della sospensione, con un volume anomalo pari a oltre 300 milioni di dollari, che ha generato profitti netti stimati tra i 12 e i 15 milioni entro le prime 48 ore di contrattazioni.
Il giorno successivo, il 10 aprile, i mercati hanno subito una brusca correzione tecnica, in parte attribuita a prese di profitto ma anche al riemergere delle tensioni sull’affidabilità delle decisioni politiche. Il Dow Jones ha perso 1.014,79 punti (-2,5%), l’S&P 500 è sceso del 3,5% e il Nasdaq ha lasciato sul terreno il 4,3%. Intanto, le autorità regolatorie statunitensi, tra cui la Securities and Exchange Commission (SEC), sono state sollecitate da diversi esponenti democratici – tra cui Alexandria Ocasio-Cortez e Adam Schiff – ad aprire un’indagine ufficiale per verificare l’esistenza di insider trading. In particolare, è stato chiesto se Trump o persone a lui vicine abbiano tratto vantaggio economico diretto dalla decisione di annunciare prima l’introduzione dei dazi e poi, a mercati destabilizzati, la loro sospensione temporanea. L’indagine si concentra anche sul fatto che DJT Media, società fondata da Trump e da lui promossa direttamente sui social, ha guadagnato oltre il 34% in borsa nelle 24 ore successive, con un incremento del valore di mercato superiore ai 1,3 miliardi di dollari.
Questa sequenza di eventi ha fatto emergere interrogativi più profondi sulla strategia economica “trumpiana”, che appare basata su un approccio tattico e fortemente speculativo più che su una visione strutturale del commercio globale. Secondo alcuni analisti, la sospensione di 90 giorni sarebbe una manovra per guadagnare tempo, ma anche per permettere al comparto finanziario legato al Presidente USA di capitalizzare sull’altissima volatilità creata. In questo contesto, la combinazione tra strumenti di politica commerciale e leve mediatiche private rischia di configurare un caso senza precedenti di sovrapposizione tra interessi pubblici e vantaggi personali. Se le accuse di insider trading fossero confermate, ci si troverebbe di fronte a uno dei più gravi scandali politico-finanziari della storia americana.
Ma al di là delle singole responsabilità, ciò che preoccupa maggiormente è il quadro più ampio in cui si inseriscono questi avvenimenti. In un mondo segnato da una crescente instabilità, dove alle guerre vere si affiancano guerre economiche sempre più aggressive, la democrazia appare oggi esposta a pericoli che non vengono solo dall’esterno, ma si annidano dentro le sue stesse istituzioni. Quando un leader può manipolare mercati, influenzare politiche commerciali e trarre profitto personale da decisioni che dovrebbero servire il bene pubblico, allora si assiste a un inquietante cortocircuito tra potere e interesse privato. La linea che separa la governance democratica dalla gestione autoritaria si fa sottile, fragile, vulnerabile. L’erosione della fiducia pubblica, la politicizzazione degli strumenti economici, la normalizzazione dell’opportunismo travestito da strategia nazionale: tutto questo contribuisce a minare le basi della rappresentanza, del controllo e della trasparenza. È in questo scenario che la democrazia rischia di implodere non per un colpo di Stato, ma per una lenta e silenziosa disgregazione dall’interno, dove il timore, il sospetto e la disillusione diventano le nuove regole del gioco. E se la politica diventa uno strumento di speculazione, anziché un mezzo di servizio alla collettività, allora il pericolo non è più imminente: è già presente.