In un Paese come l’Italia, che invecchia e si riduce numericamente a causa di una crisi demografica strutturale, e che attraversa da tempo una fase di bassa crescita economica dovuta sì ad un basso tasso di produttività ma soprattutto ad un basso livello della domanda interna (in particolare i consumi), la prospettiva di una guerra dei dazi su scala globale è l’ultima cosa che ci si potrebbe augurare. Perché a pagare il prezzo più salato di una scelta del genere, che come hanno già dimostrato le borse fa male a tutti, sarebbero le economie più dipendenti dall’export e in particolare quelle con redditi medi da lavoro e pensioni più bassi.
Nell’arco di vent’anni, in Italia le nascite sono precipitate passando da 544.063 del 2003 a 379.339 nel 2023. Meno nati, meno giovani e un‘impetuosa avanzata di anziani – secondo le rilevazioni dell’ultimo report dell’Osservatorio Enpaia-Censis – rendono fragile la struttura demografica interna e minano la tenuta del sistema paese: impattano sulla creazione e redistribuzione della ricchezza ma anche sulla forza lavoro disponibile per le imprese (nel 2050 si ridurrà di 2 milioni e 200 mila unità) che avranno sempre più difficoltà in prospettiva a reperire il personale necessario al loro fabbisogno.
Il declino demografico, secondo i ricercatori del Censis, è il combinato disposto di due fenomeni: da un lato la speranza di vita, aumentata tra il 1983 e il 2023 di 8,5 anni, è destinata a crescere da qui al 2050 determinando una maggiore proporzione di persone di età compresa tra 80 e 90 anni; dall’altro il baby crash, ovvero la diminuzione della natalità, che ha fatto seguito al baby boom all’origine del contingente di persone tra i 45 e i 65 anni oggi maggioritario, che pone anche problemi di sostenibilità del sistema pensionistico.
Una deriva, quella dell’invecchiamento che, secondo le proiezioni dell’Istat, continuerà a progredire: per il 2050 si stima infatti che gli italiani over 65 saranno il triplo dei giovani under 14.
Una deriva a cui si accompagna la bassa crescita del Pil, che lo scorso anno ha segnato un aumento dello 0,5% a fronte dell’1% previsto dal Governo e che quest’anno non sembra in grado di muoversi più di tanto considerando che a fronte dell’1,2% indicato dal ministro dell’economia Giorgetti, al momento tutte le previsioni danno stime inferiori. La Commissione Europea prevede infatti per il nostro Paese una crescita dell’1%; Bankitalia e Istat dello 0,8%, mentre il Fondo Monetario Internazionale ci attribuisce una crescita dello 0,7 (0,9 nel 2026). Tra le economie avanzate, secondo l’outlook di gennaio del FMI, solo la Germania (lo scorso anno in recessione) fa peggio del nostro Paese con una previsione di crescita per l’anno in corso dello 0,3%, tutte le altre fanno meglio: la Francia ci precede di un’incollatura con una stima dello 0,8% (e ci stacca di 1.1 nel 2026), la Spagna arriva al 2,3% (1.8 nel 2026), il Giappone all’1,1% (0,8 nel 2026), il Regno Unito all’1,6 (1.5 nel 2026), il Canada al 2% (anche il prossimo anno); gli Usa al 2,7% (2.1 l’anno prossimo), mentre alla Cina viene accreditata per l’anno in corso una crescita del 4,6% (4.8 nel 2024 e 4.5 nel 2026); all’India una crescita stabile del 6,5% (stesso dato dell’anno precedente che si proietta anche nel 2026) e alla Russia (che sta sacrificando la sua economia sull’altare della guerra in Ucraina) una crescita in decelerazione all’1,4% (dal 3.8 del 2024 fino a 1.2 nel 2025).
È evidente quindi che i Paesi fortemente dipendenti dalle esportazioni (in caso di una conferma di dazi da parte degli Usa) saranno costretti a guardare più a oriente che ad occidente (o ai Paesi dell’Africa subsahariana, accreditati di una crescita del 4,2%). In particolare quelli che scontano una bassa crescita della domanda interna come l’Italia e che, come ha fatto notare Mario Draghi poco prima dello scorso Natale, non possono più proseguire sulla strada della compressione delle retribuzioni (istituita con gli “accordi di luglio” nel 1992 e ’93 dai Governi Amato e Ciampi), per essere competitivi.
Le produzioni di eccellenza e di alta qualità come quelle dell’agroalimentare made in Italy, supportate dall’innovazione per renderle più competitive, potranno aiutare notevolmente la crescita della nostra economia. Ma vanno tutelate e promosse.
Ma per chiudere il cerchio e rilanciare i consumi interni, forse andrebbe avviata una riflessione sulle parole di SuperMario e sulla necessità di una nuova politica non solo dei redditi (ma anche industriale e di tutte le infrastrutture), tra istituzioni e parti sociali, capace di produrre una sintesi alta tra le istanze del lavoro e quelle delle imprese per il bene del Paese.