L’agricoltura è a un punto di svolta, occorre adesso imboccare la strada giusta. Ridare centralità al primario vuol dire agire concretamente con misure adeguate, onde evitare l’abbandono delle aree interne e la perdita del presidio sul territorio, con la scomparsa del paesaggio e della biodiversità. Conseguenza di tutto questo, la fine del Made in Italy agroalimentare: un rischio che il Paese non può correre. Tra il 2000 e il 2020, delle 1,3 milioni di aziende che hanno cessata l’attività in Italia, 3 su 4 erano situate in aree collinari e montane. La chiusura ha comportato la riduzione di 850mila ettari di superficie agricola coltivata. Investire sulle zone rurali è, dunque, una grande urgenza economica e sociale, che necessita di una strategia unica nazionale per arrestare lo spopolamento in queste aree in sofferenza.
La crisi climatica e gli eventi catastrofali non hanno fatto altro che amplificare, soprattutto nelle aree interne e di montagna. Siccità estrema al Sud e alluvioni devastanti al Nord, i tragici terremoti degli ultimi 15 anni, fino agli ultimi shock geopolitici ed economici mondiali hanno fatto in assoluto più danni lì dove erano già pesanti i problemi delle infrastrutture e dei servizi, dove non si è lavorato per ammodernare o per innescare margini di innovazione, rendendo quasi impossibile fare impresa e incentivare le nuove generazioni a restare.
I problemi principali riguardano la rarefazione dei servizi, lo smantellamento delle infrastrutture e una generale marginalizzazione che mette in pericolo il 60% del territorio italiano, incidendo negativamente sui diritti di cittadinanza di 13 milioni di persone, molti dei quali agricoltori. Per poter sopravvivere e tornare appetibili, le aree interne hanno bisogno, in primis, del rafforzamento e ammodernamento del sistema infrastrutturale materiale e immateriale (strade, scuole, presidi sanitari, digitalizzazione, luoghi di cultura) con politiche di sostegno all’abitabilità.
All’ultima assemblea di Cia abbiamo proposto la nostra ricetta per le aree interne e svantaggiate d’Italia, ovvero la possibilità di far diventare queste delle “zone franche” con una fiscalità agevolata, soprattutto per le attività economiche e produttive. Tali misure potrebbero riguardare l’acquisto e la ristrutturazione di case a tassi agevolati, le trattenute minime su pensioni e buste paga, ma anche tariffe agevolate sui servizi come luce e gas, mense scolastiche e alcune visite specialistiche a carico dello Stato. In questo nuovo scenario, diventerebbe ovviamente centrale la creazione delle condizioni necessarie ad aprire aziende a costo zero.
Queste misure, dunque, potrebbero essere il pilastro cardine su cui rimettere in piedi il Paese, insieme a una più equa redistribuzione del reddito agricolo lungo la filiera e a una gestione nuova e più efficiente delle risorse idriche rispetto ai cambiamenti climatici.