di Sergio Retini, Vice Presidente ENPAIA
L’adesione dei lavoratori dipendenti alla previdenza complementare non decolla. A fronte di una platea di circa quindici milioni di addetti nel settore privato soltanto poco più di un quinto risulta oggi iscritto ai fondi pensione negoziali. E’ un dato che deve interrogare e preoccupare per gli effetti che produrrà nel lungo termine considerando anche che la platea degli iscritti è costituita da oltre l’80% di ultra-trentacinquenni. Alla base c’è la mancanza di un modello culturale nel Paese, nelle aziende e fra i lavoratori che nei fatti ne ha frenato lo sviluppo con inevitabili gravi conseguenze, già attuali e future per i redditi da pensione dei lavoratori dipendenti calcolati col sistema contributivo.
E dire che la riforma previdenziale del 1995 indicava chiaramente la necessità di sviluppare la previdenza integrativa attraverso l’istituzione di Fondi negoziali per i lavoratori dipendenti. Necessità subito colta dai Sindacati dei lavoratori e dalle Associazioni datoriali che negli anni successivi hanno dato vita attraverso la contrattazione collettiva al sistema della previdenza complementare. Numerosi sono stati i Contratti Collettivi Nazionale di Lavoro e che hanno istituito con il loro rinnovo la nascita dei Fondi di previdenza contrattuali comunemente indicati come fondi chiusi, ovvero riservati esclusivamente a determinate categorie di lavoratori indicate negli accordi.
Ciò nonostante, le adesioni si sono verificate nella prima fase di costituzione dei fondi e successivamente con la riforma del 2007 dove è stata introdotta la nuova previdenza complementare per il settore privato. Da allora, fatto salve le eccezioni per alcuni fondi, generalmente le adesioni non sono aumentate. Anzi molti sono i casi dove si è verificata una inversione di tendenza. Indubbiamente il contesto dopo il 2007 non è stato semplice. La grande crisi economica degli anni successivi ed ultimamente gli effetti della pandemia non hanno aiutato il sistema. Ma anche le scelte politiche e normative dei vari Governi non hanno accompagnato il percorso, anzi lo hanno indubbiamente rallentato con alcune misure, che seppur dettate dalla crisi perdurante, hanno destinato il trattamento di fine rapporto a scelte individuali dei lavoratori nettamente in contrasto con lo sviluppo della previdenza complementare.
Le stesse conclusioni delle rispettive Commissioni di Camera e Senato dello scorso anno vanno nella direzione diametralmente opposta allo sviluppo della previdenza complementare. Se si pensa di favorire il sistema aumentando la tassazione evidentemente si vuole andare da un’altra parte e l’auspicio è che il Governo prenda ben altra direzione. Lo sviluppo della previdenza complementare può davvero realizzarsi garantendo una tassazione ridotta, la destinazione di nuove risorse dalla contrattazione collettiva, l’inserimento del silenzio assenso per quanto riguarda le iscrizioni ai fondi e misure di particolare attenzione e incentivi per i lavoratori delle piccole aziende, per quelli a tempo determinato e per tutte le fasce deboli del mondo del lavoro.
Ma per fare questo serve un accordo di programma fra Governo e parti sociali in grado di realizzare le condizioni per diffondere un modello culturale che contempli, senza infingimenti, in aggiunta alla previdenza pubblica anche quella integrativa. E’ indubbiamente una bella sfida. Si può vincere? Si! Basta prender coscienza e aver la consapevolezza che la previdenza integrativa è indispensabile per il Paese e per le generazioni future.