di Giulio De Rita
Bisogna fare comunità! È il mantra di oggi: dopo il decennio delle crisi finanziarie, del rinculo della globalizzazione, della pandemia; contro i mutamenti climatici, contro la guerra, contro l’ubriacatura solipsistica di Internet; per affrontare la de-globalizzazione e il ricollocamento occupazionale; per poter far rientrare le piattaforme produttive dalla Cina: per tutto questo serve riscoprire la comunità!
Sentiamo tutti il bisogno di ritrovare quel paradigma, un po’ anni ’70, per cui le spinte individualiste e di autoaffermazione si sostenevano su una forte coesione territoriale; un po’ il modello Prato, un po’ Fabriano, un po’ Treviso; per i più idealisti e rétro un po’ Ivrea.
Ma purtroppo non è così semplice; sarebbe come dire: «Per vincere di nuovo un campionato del mondo dobbiamo eleggere Presidente della Repubblica una persona come Sandro Pertini».
Quei tempi sono passati per sempre per almeno tre profonde trasformazioni sociali che hanno caratterizzato gli ultimi 40 anni della nostra storia.
Bisogna considerare prima di tutto la questione socio-antropologica: dopo anni di conflitti striscianti, di giornate del vaffa, di «sei una capra!!», di talk show pensati a tavolino per far litigare gli ospiti eccetera eccetera… è difficile ricominciare a parlarsi dialogando e non urlando; e vero che forse ora la violenza del dibattito sta scemando – ma questo soprattutto perché la gente è stanca e non si diverte più davanti alle risse –, ma da questo abbassamento dei toni passare al dialogo non è così automatico.
C’è poi certamente la questione demografica. Quel tipo di coesione sociale che sosteneva l’impresa individuale, e che in molti casi si trasformava in cultura di distretto, aveva la sua forza vitale nella giovane età dei suoi protagonisti: l’operaio che usciva da una fabbrica di cucine per impiantare la sua azienda di cappe aspiratrici era un operaio giovane, che stava costruendo la sua vita e non aveva paura di rischiare; oggi un giovane intraprendente vuole andare più lontano possibile da casa sua. Le comunità così come eravamo abituati a vederle e a immaginarle negli anni ’70-’80 sono invecchiate e numericamente impoverite; in Italia, il 70% della ricchezza è in mano agli anziani, i quali certamente non hanno nessuna voglia di rischiare la loro sicurezza economica per affrontare nuove avventure.
Infine, la comunità ha trovato, negli ultimi trent’anni, la sua forza e il suo senso di esistere nell’autodifesa: quante volte abbiamo sentito dire «dobbiamo difendere la nostra identità, il nostro territorio, i nostri posti di lavoro, le nostre tradizioni»? Salvo poi accorgersi che senza muratori rumeni, senza contadini indiani e senza badanti ucraine la vita della comunità non poteva andare avanti. Non si può essere difensivi e autorealizzativi al tempo stesso!
Per questi tre motivi e per tanti altri che qui sarebbe superfluo ricordare, la comunità che cresce, si sviluppa, si rafforza e si arricchisce attorno a un campanile o una torre comunale è, nella maggior parte dei casi, una nostalgia del passato.
Tutto ciò, però, non deve scoraggiare chi crede profondamente nella forza dei legami, della collaborazione e della coesione sociale; solo bisogna accettare che in molti casi in quelle piazze, sotto quei campanili o torri, le persone sono poche, vecchie e arrabbiate.
Chi volesse oggi provare a rafforzare i legami di collaborazione, da dove dovrebbe cominciare?
Forse, senza farci troppe illusioni, dobbiamo accettare la sfida di un sistema sociale a bassa integrazione, che tende cioè a dividersi in modo non organico: due minoranze compatte e contrapposte da una parte; dall’altra una maggioranza culturalmente e socialmente indistinta.
In tutte le cose c’è chi è contro e chi è a favore, chi è superattivo e chi invece è passivo, chi è credente e chi invece è ateo; queste due componenti numericamente spesso si equivalgono: diciamo un 15/20% della popolazione. Ma poi accanto a queste minoranze compatte c’è la maggioranza a bassa intensità, che non si riconosce negli estremismi.
Allora forse dovremmo focalizzare l’attenzione su questa maggioranza indistinta, su questa “zona grigia”.
Probabilmente chi cerca consenso, non solo politico, pensa soprattutto alle minoranze di quel 20% che si schiera e prende posizione, sperando che poi la maggioranza indistinta seguirà per inerzia, pur se non convinta. Ma questo non è fare comunità; quindi forse è l’ora di affrontare una brutale verità, e cioè che il futuro della comunità e della coesione sociale si giuoca prevalentemente sulla capacità di capire cosa è oggi la zona grigia – quella componente sociale un po’ inerte e indifferente che oggi è di fatto maggioranza – e di tener viva quella parte di “zona grigia” che ha ancora una resistenza a sciogliersi nello scetticismo su tutto e tutti.
Lavorare nella zona grigia è una grande e difficile fatica, perché è una realtà sociale che sfugge a ogni cultura e soggetto di mediazione; perché è effetto e causa della grande opera di disintermediazione che ha occupato gli ultimi decenni: la maggioranza indistinta non è rappresentata da nessuno; a volte forse è assecondata ma sente di non riuscire a identificarsi in nessuna rappresentanza.
Per prima cosa bisognerebbe quindi attrezzarsi adeguatamente per capirla, e un tale lavoro non può essere di tipo tradizionale (indagine sociologica o d’opinione), ma deve essere capace di entrare nel vivo della dinamica che caratterizza la realtà sociale, capendo i meccanismi di disarticolazione oggi correnti e impegnandosi nel “fare integrazione”, nella consapevolezza che le due cose vanno viste insieme.
Bisogna concretamente calarsi in un lavoro “di campo” sui luoghi, sui soggetti e sui processi dell’attuale disintegrazione e dell’auspicabile nuova integrazione. Quindi occorre per prima cosa rintracciare i luoghi e i soggetti dell’integrazione: integrazione tra i singoli ceti sociali; tra italiani e immigrati; tra generazioni; tra aree centrali e periferie; tra vite comunitarie e soggetti soli ecc. Ma soprattutto valorizzare i meccanismi di integrazione nelle realtà in cui si può e si deve contrastare e superare il soggettivismo solipsista maturato dai singoli un po’ dappertutto: nel lavoro, nelle parrocchie, negli spazi pubblici, nelle strutture sanitarie, nella scuola… Esistono meccanismi di integrazione che non sono dettati da un’etica comunitaria, da una qualche condivisione di valori preordinati – valori di cittadinanza, di appartenenza, di fede, al limite patriottici –, ma sono dettati principalmente dal desiderio di fare, e possibilmente di fare bene quel che c’è da fare.
Bisogna, in altre parole, radunare quel “popolo delle cose”, quei soggetti sociali che fanno le cose rimanendo ancorati a quel che c’è da fare, senza liquefarsi negli oceani delle opinioni e delle emozioni. Coloro che sanno essere presenza quotidiana nella società, che cercano di esprimere il loro saper fare e il loro voler fare bene.
Potremmo dire che si tratta di un popolo delle cose contrapposto al popolo delle parole, se questa non fosse esattamente un’affermazione tipica da “popolo delle parole”.
Fare comunità oggi vuol dire, probabilmente, accompagnare la vita buona che ancora fermenta nella società indistinta, facendo in modo che si riconoscano, a tutti i livelli, quei compagni di strada inaspettati a cui poter dire: «Ci stiamo impegnando a far bene, stiamo facendo entrambi un lavoro serio»; vuol dire, in altre parole, fare quel lavoro di organizzazione delle intelligenze di cui tanto c’è bisogno oggi. Chi saprà fare un lavoro collettivo di questo tipo, lento e progressivo, di continuo discernimento dei processi in atto – per accompagnarli laddove sono vitali e costruttivi, ma anche per ridimensionarli laddove rappresentano meccanismi involuti ed egoistici –, potrà dar voce al “popolo delle cose”, gli permetterà di riconoscersi e avrà gettato il seme di una nuova e più autentica forma di rappresentanza.
Nella cultura sociale italiana degli ultimi anni abbiamo assistito a un progressivo allontanamento tra chi si è dedicato all’elaborazione di un pensiero e chi ha riversato il suo impegno nella ricerca di soluzioni concrete a problemi concreti.
Ma per avviare processi di crescita e promozione umana occorre che l’azione sappia pensare se stessa e che il pensiero sappia tradursi in azione; il fatto che questi due processi siano affidati a soggetti differenti è naturale, purché questi dialoghino e in qualche modo camminino insieme.
Invece, il nostro sviluppo sociale si muove sempre più su piani non coordinati tra loro, e tale situazione rischia di impoverire sia il pensiero che l’azione; non si è lontani dal vero se si afferma che oggi in Italia chi è chiamato a fare elaborazione culturale parla senza contare, mentre chi porta avanti con energia delle iniziative agisce senza parlare.
Fare comunità vuol dire anche riavvicinare queste due anime cercando i fili di pensiero che, sottotraccia, uniscono coloro che prendono iniziativa, raccontare, cioè, la rete di valori, di idee e di obiettivi che tiene uniti coloro che agiscono; in altre parole: trovare lo spirito di chi agisce.
Concretamente si tratta di un lavoro sul territorio, di animazione e di movimento, di ascolto e cucitura, perché la comunità è certamente territoriale, ma non è più puntiforme: somiglia di più a una rete, con dei fili che in buona parte devono ancora essere annodati, ma che uniscono le persone di buona volontà nel Sociale, nel mondo della cultura, dell’accoglienza, della salvaguardia ambientale, ma anche dell’impresa, che abbia però una ricaduta sul territorio: una comunità fatta più di “tribù” che di piazze.
Chi si metterà a cercare questo popolo scoprirà che, pur facendo cose diverse, sta maturando una visione più ampia, una strategia, un progetto per il suo territorio, ma anche – ed è la cosa più importante – che, pur nelle diversità, è mosso da un motore identitario molto più comune di quanto si creda.