È evidente che il settore agricolo sta attraversando una fase di criticità a causa dell’aumento dei costi di produzione, che nell’ultimo periodo ha suscitato proteste da parte degli agricoltori in diversi Paesi europei e anche in Italia. Nel nostro Paese, però, i temi dei costi di produzione e della remunerazione del prodotto sono comunque ben presidiati dalle rappresentanze del mondo agricolo sia a livello della politica nazionale che europea.
Non c’è dubbio che l’aumento dei prezzi delle materie prime a livello internazionale, a cominciare dai prodotti energetici, si sia trasferito pesantemente anche nel nostro Paese; e che il settore agroalimentare sia stato quello tra i più colpiti dall’aumento dei prezzi diventando un volano di trasmissione inflattiva.
Ma occorre osservare che se è vero che gli aumenti dei prezzi dei prodotti agricoli si ripercuotono subito sui costi di produzione dell’industria alimentare, che a sua volta recupera altrettanto velocemente la contrazione dei margini di profitto aumentando i prezzi dei prodotti lavorati, è altrettanto vero che quando si attenua l’intensità della fiammata inflattiva a monte (nel settore agricolo) tale attenuazione si trasferisce molto lentamente a valle (nell’industria di trasformazione), contribuendo a mantenere inalterati gli aumenti dei prezzi del prodotto finale, e altrettanto lentamente si trasferisce poi al settore della distribuzione, che ovviamente tende a mantenere inalterati i propri margini di profitto nel tempo.
La vischiosità di tale dinamica ovviamente incide in maniera rilevante sul meccanismo di formazione dei prezzi finali e molto negativamente sulla domanda dei prodotti alimentari, lasciando scontenti da una parte gli agricoltori, che in alcuni casi hanno difficoltà a coprire i costi di produzione, e dall’altra i consumatori, che sono costretti ad allocare una quota crescente del loro reddito disponibile nella spesa alimentare senza poter usufruire del calo dei prezzi nelle fasi di flessione del mercato lato offerta.
Inoltre, la trasmissione della catena di produzione di valore lungo la filiera non è lineare. Basta osservare, infatti, che il valore aggiunto medio per impresa è di circa 32mila euro nel settore agricolo, 527mila euro nell’industria alimentare (comprese bevande e tabacco), 144mila nella distribuzione (ingrosso e dettaglio) e 84mila nella ristorazione, per rendersi conto che gli aumenti dei prezzi delle materie prime si scaricano con tempi e pesi diversi lungo la filiera e in maniera inesorabile sui consumatori. In particolare su quelli a reddito fisso (lavoratori dipendenti e pensionati) erodendo in misura significativa non solo il potere d’acquisto delle famiglie ma anche la loro capacità di risparmio, in particolare di quelle meno abbienti, se non anche il risparmio accumulato.
Tuttavia, in prospettiva, quello che preoccupa maggiormente è quanto sta accadendo sul Mar Rosso, con la riduzione del traffico navale in transito per il Canale di Suez a causa degli attacchi terroristici degli Houti, popolazione sciito-yemenita, che comporterà, nel breve termine, un ulteriore aumento di costi dovuti all’allungamento delle tratte di trasporto mare per la movimentazione delle merci, costringendo le imbarcazioni a circumnavigare l’Africa.
Noi siamo un Paese esportatore, ma importiamo anche materie prime e semi-lavorate che al 90% sono veicolate via mare. Quindi, anche noi da questo punto di vista subiremo ulteriori effetti negativi se non si troverà una soluzione alle tensioni in medio oriente.
La speranza, ovviamente, è che tali frizioni siano un fattore passeggero, confidando che anche l’Europa si organizzi per assumere un ruolo deciso (al momento l’intervento è sostenuto da un accordo siglato da Francia, Germania e Italia, un patto che troverà a breve l’adesione anche di Olanda e Belgio, considerato che tutti hanno interesse a mantenere i loro porti in attività). Compresa la Cina, che con la riduzione del traffico a Suez rischia di scontare danni non trascurabili dal punto di vista commerciale.
Per quanto ci riguarda, il mondo agricolo, che non ha subìto i tagli annunciati e non ne avrà, a differenza di quanto sta avvenendo in Europa, ci sarà da tenere sotto controllo due difficoltà: la prima quella di esportare a costi accettabili dai mercati e la seconda, meno prevedibile, legata al clima. Perciò ci dovremo impegnare, soprattutto, sul tema della sostenibilità ambientale e in particolare sulla riduzione della chimica in agricoltura.
Inoltre, abbiamo davanti la nuova frontiera legata all’intelligenza artificiale, con tutte le possibilità che offre per l’innovazione e lo sviluppo del settore agricolo anche in termini di riduzione dei costi di produzione, di abbattimento dei prodotti chimici e risparmio di risorse idriche.
Lo sforzo che dovremo fare è proprio quello di contribuire allo sviluppo di un’agricoltura moderna, investendo nelle imprese più dinamiche ed innovative del settore primario perché è anche nell’interesse di Enpaia avere imprese solide che garantiscano utili e posti di lavoro in crescita e quindi iscritti alla nostra Fondazione. Questa è la nostra politica.
Perciò, dovremo riorientare la gestione del nostro patrimonio, collocando sul mercato alcuni dei nostri immobili per reinvestire anche nel settore dell’innovazione, sull’agricoltura 4.0, sull’utilizzo delle tecniche di coltivazione ad alta resistenza e che non hanno bisogno di essere protette chimicamente; e nell’ambito della ricerca che si sta applicando sui biostimolanti di origine naturale per efficientare l’utilizzo dei concimi, rendendoli più disponibili e capaci di generare l’auto-resistenza delle piante.
È importante favorire gli investimenti in questi settori. Ed Enpaia si colloca proprio in questa prospettiva: accrescere gli investimenti nell’economia reale, compatibilmente, come ovvio, con la disponibilità delle nostre risorse, ma nella lucida consapevolezza che tale obiettivo è oltre che nella nostra ambizione anche nelle nostre capacità. Si tratta solo di avanzare lungo il percorso che abbiamo già intrapreso con la compartecipazione in Masi, BF e Granarolo.