Con 23 milioni 694.000 occupati e un tasso di occupazione del 61,8%, l’Italia realizza in questo 2023 il suo miglior risultato di tutti i tempi.
Ma abbiamo poco da rallegrarci, se questi dati li raffrontiamo con quelli degli altri paesi dell’Unione.
Siamo infatti in fondo alla classifica, sia come tasso di occupazione complessivo (fa meglio di noi anche la Grecia) sia per quanto riguarda l’occupazione giovanile e femminile.
Questi dati, inoltre, spiegano meglio di altri perché l’Italia sia, tra i paesi europei, quello in cui le famiglie fanno più fatica ad arrivare alla fine del mese. Da un recente sondaggio sono oltre il 63% e la media europea è al 49,5%. Anche in questo caso se fosse un campionato saremmo già retrocessi.
Lo snodo fondamentale è in particolare il lavoro femminile che nel nostro paese è basso per quantità di occupate, precario e per lo più mal retribuito. La scelta della maternità è inoltre sempre più spesso motivo di abbandono della attività lavorativa da parte delle donne italiane.
Secondo l’ultimo rapporto dell’Ispettorato nazionale del lavoro, il 72,8% delle dimissioni di genitori, verificatesi nei primi tre anni di vita del bambino, riguardano donne, ovvero 44.669 su 61.391 mila. Le madri dichiarano di fare questa scelta per l’impossibilità di conciliare le attività familiari con il lavoro a causa della mancanza di servizi. Viste queste premesse, non sorprende che in Italia lavori solo una donna su due, con un tasso di occupazione tra i più bassi in Europa.
Ma non è solo questo. Le donne molto più degli uomini sono costrette ad accettare contratti a termine o a orario ridotto. Oppure entrambi. Questo fa sì che lavorino meno ore e meno giornate all’anno. Un dato per tutti: il 57% delle donne part-time vorrebbero lavorare a tempo pieno. Tuttavia, anche le donne che lavorano a tempo pieno come i loro mariti/compagni di solito guadagnano meno: l’ora lavorata per una donna nel nostro paese nel settore privato vale in media il 15,5%. Il risultato è che la differenza salariale tra uomini e donne ha raggiunto nel 2022 quasi 8mila euro e la retribuzione media annua di una donna in Italia arriva ad essere fino al 30% più bassa di quello di un uomo.
Questa condizione drammatica deve far riflettere anche sul versante delle violenze perpetrate a danno delle donne. La prima forma di violenza è, infatti, scoraggiare il lavoro femminile, pagarlo meno, renderlo più precario. Una donna che lavora è autonoma, ha i mezzi per sottrarsi al partner manesco. La donna senza redditi non può, nemmeno volendo.
Conclusione: il lavoro a tempo indeterminato e ben retribuito è una pre-condizione essenziale per scelte autonome e libere anche nell’ambito della vita privata.
Ciò detto la parola d’ordine della UILA è forte e chiara: “dare più valore al lavoro” e in particolare a quello femminile.
Dare pratica attuazione a questo obiettivo è la scelta di fondo del nostro impegno. Come realizzarlo? In primo luogo, imprese e parti sociali devono rinnovare i contratti di lavoro alla loro scadenza e bisognerebbe per legge prevedere un intervento verso i renitenti.
Qualche proposta? Sospensione di ogni agevolazione contributiva e fiscale e divieto di partecipazione a gare e ad appalti verso i sistemi di imprese o le singole aziende che non rinnovano i contratti di lavoro.
Sarebbe inoltre necessario accendere un faro, come chiede la UILA, verso quelle cooperative che dello sfruttamento della persona fanno un’arma per il dumping.
Non è necessario andare molto lontano: il nostro sistema pubblico, a cominciare dalla sanità, le utilizza senza vergogna.
Il Governo in carica ha inoltre perso una grande occasione con questa legge di stabilità, non accettando le proposte sindacali di detassare gli aumenti contrattuali.
Dal contesto più generale è giusto scendere nello specifico. Nel settore agroalimentare FAI, FLAI e UILA hanno costruito relazioni sindacali strutturate e con tutte le controparti, i contratti sono rinnovati con sufficiente tempestività e le conclusioni in termini salariali sono sempre state adeguate.
I rinnovi in corso attualmente devono superare uno scoglio non previsto: l’inflazione che, nel biennio che ci lasciamo alle spalle, ha eroso il potere di acquisto delle retribuzioni. Le aziende, in tutto e in parte, hanno potuto scaricare sui listini l’incremento di prezzi, le persone attendono i rinnovi dei contratti per recuperare quanto perso negli ultimi 24 mesi. Non intendiamo deluderle.
Sulla condizione della donna nei campi e nelle aziende i contratti sono pieni di buone intenzioni che vanno, però, realizzate e di opportunità che facciamo fatica a far conoscere. Un esempio su tutti l’EBAN, l’Ente bilaterale agricolo, riconosce una indennità pari a tre mensilità di retribuzione in favore delle donne lavoratrici con contratto a tempo indeterminato vittime di violenza di genere e inserite nei percorsi di protezione, che usufruiscono del periodo di congedo previsto dall’articolo 24 del D. lgs. M.80/2015. L’indennità è riconosciuta per i tre mesi di congedo fruiti successivi ai tre mesi previsti per legge ed indennizzati dall’INPS.
Scelta giusta, risorse stanziate ma poche quelle effettivamente spese. È la dimostrazione della distanza che spesso si crea tra una buona soluzione e la sua realizzazione. Un impegno per tutti a lavorare di più, e meglio, verso la conquista di una effettiva parità.