Nel 1960 l’Umanità era composta da circa 3 miliardi di individui, alla fine del 2022 la platea ha superato gli 8 miliardi. Negli ultimi 60 anni l’esplosione demografica è stata potentissima, mediamente ogni 12 anni si sono contati un miliardo di Terrestri in più. Al di là delle dimensioni assolute, l’analisi dei dati evidenzia però alcuni particolari aspetti evolutivi: la popolazione tende a diventare più longeva (alla nascita ha una maggiore speranza di vita, per via di un maggior benessere, seppure distribuito con profonde iniquità, di più sanità ed igiene, di sistemi di welfare di più ampia diffusione, ecc.).
In sostanza, sembra che si nasca e si viva di più, ma il meccanismo non è così lineare, tanto è vero che da quegli stessi dati emerge la tendenziale disarticolazione generazionale, per cui l’Umanità sta, sempre mediamente, invecchiando con rapidità, come si evince dai valori assunti dall’età mediana.
Una delle cause è individuata nel calo del tasso di fertilità. La riduzione conduce ad un numero di nascite ben inferiore a quello necessario a garantire l’equilibrio generazionale. Il fenomeno è più forte nei paesi a maggior grado di sviluppo, mentre nei paesi più svantaggiati (sostanzialmente africani) il coefficiente rigenerativo si mantiene elevato, seppure con andamento calante.
Ne deriva che il numero dei Terrestri continuerà ancora a crescere in termini assoluti, ma il ritmo sarà più modesto. Nel 2040 si stima infatti il raggiungimento dei 9 miliardi di abitanti (proiezioni ONU). Per raggiungere i 10 miliardi si dovrà giungere in prossimità del 2080 (più precisamente per quella data ci si dovrebbe posizionare intorno ai 10,4 miliardi di umani; quello, al momento è il “punto di sella” stimato, ovvero il segno di inizio della stasi e della seguente fase regressiva, di calo della popolazione).
Vista con l’ottica lunga e con il più ampio grandangolo, tale panoramica non sembra poi così allarmante, ciascuno di noi, in cuor suo, può anche sperare che le scienze mediche ci rendano spettatori e protagonisti almeno fino al prossimo secolo. Qualche problematica in più, però, può sorgere se invece di guardare alle macro-tendenze cominciamo a pensare ai micro-sconvolgimenti che quel quadro evolutivo può comportare.
Il nostro Paese, ad esempio, che è tuttora la seconda forza manifatturiera europea (avanzata solo dalla Germania), presenta uno dei più bassi livelli globali di fecondità (1,2 figli per donna) e una delle popolazioni più longeve e anziane (superati solo dai giapponesi). In pochi anni abbiamo visto che i nostri ragazzi under15 anni sono divenuti quasi la metà degli over65 e tale processo non sembra destinato ad arrestarsi.
Quanti e quali sconvolgimenti possono interessare l’Italia nel prossimo futuro?
Squilibri dell’economia reale. Sicuramente il mercato del lavoro si potrebbe trovare ad affrontare una carente offerta di manodopera, né possiamo pensare che l’innovazione tecnologica sarà in grado di sostituire integralmente la forza lavoro. Le dinamiche tra le flessibilità contrattuali e la stabilizzazione della forza lavoro (variabili, peraltro, tutt’altro che neutre rispetto alla decisione di fare figli) potrebbero richiedere nuovi approcci tesi ad evitare l’inverno produttivo oltre che demografico. Le possibilità di crescita richiederanno in sostanza, naturalmente, investimenti sul capitale ma anche di non sottovalutare l’investimento da effettuare per rigenerare la popolazione attiva. D’altra parte, dal necessario rinfoltimento della quota di lavoratori attivi dipende anche la tenuta dell’equilibrio del sistema pensionistico, sia pure in regime contributivo. Un esercizio abbastanza complesso laddove la base della piramide, quella dei contributori alla previdenza sociale, tende a restringersi a fronte di un vertice, costituito dai percettori di pensione, che tende a dilatarsi (la piramide capovolta).
Molti paesi già da qualche tempo hanno reagito innalzando l’età pensionabile ed è sempre più evidente la distanza che si sta delineando rispetto al ritornello che solo un paio di decenni sembrava dominante: “si vada in pensione prima, così da lasciare i posti di lavoro ai giovani!”.
Squilibri del comparto finanziario. Al disequilibrio del sistema pensionistico e dell’intero sistema di welfare, si sovrappone più in generale la questione della sostenibilità di uno tra i più elevati, a livello globale, rapporti debito pubblico / Pil. Si ripete usualmente la necessità di contenere il rapporto sia nel montante sia del suo apporto annuo (deficit corrente/Pil è un altro tetto attenzionato da Bruxelles) considerato che tale debito grava sulle generazioni future. Considerato il tendenziale invecchiamento della nostra popolazione ci si potrebbe trovare di fronte ai mercati finanziari nella situazione di un novantenne che reclama in banca la concessione di un nuovo e aggiuntivo mutuo trentennale. In sostanza, a fronte di un debito crescente ci si trova nella necessità di convincere “i mercati” circa la capacità di future generazioni, sempre più esigue, di essere solvibili.
Pur evitando di considerare il cinismo implicito nel lasciare un pesante debito in eredità alle nuove generazioni, altri meccanismi legati all’invecchiamento della popolazione debbono però essere evidenziati. Si è già detto che la richiesta di sostenere il welfare potrebbe aumentare e ciò potrebbe accadere in coincidenza con una compressione della capacità di copertura finanziaria di carattere tributario, visto che un individuo in pensione normalmente soffre di una contrazione del reddito disponibile rispetto a quello percepito in fase di attività lavorativa. Nel complesso passando quote del monte reddito, base imponibile delle imposte dirette, da una platea di lavoratori a quella di pensionati il gettito di sistema tende a contrarsi. Così come con l’invecchiamento tenderà a ridursi il livello generale della propensione al consumo, dal momento che questa è sicuramente più alta in età giovanile mentre con l’avanzare degli anni va aumentando la propensione al risparmio (parimenti anche le imposte indirette non andranno quindi in fioritura!).
Una minore spinta al consumo a livello di sistema non è buona cosa ai fini della crescita del Paese, visto che si comprime l’effetto moltiplicatore del reddito. Tale effetto si potrebbe controbilanciare se i minori consumi degli anziani, sempre ragionando a livello di sistema economico complessivo, fossero compensati da investimenti crescenti, ma questi ultimi dovrebbero comunque competere con l’effetto spiazzamento prodotto dai “titoli del debito pubblico” (il cui maggior peso aggraverebbe peraltro il tasso di rendimento da garantire) e quand’anche si tentasse di adescare “investimento estero” si percorrerebbe un tragitto estremamente complesso: chi investirebbe in un “Paese” sempre più invaso da anziani ? Quale dinamica del livello di produttività potrebbe garantire un rischio “affrontabile” per un ritorno soddisfacente dell’investimento effettuato in un Paese “che non sembra più adatto ai giovani”?
Giuseppe Peleggi, Responsabile Ufficio Studi Enpaia