di Alberto Oliveti, Presidente Endi Alberto Oliveti, Presidente Enpam e Adepppam e Adepp
Il Pnrr punta sulle professioni, sulle competenze certificate, sugli investimenti sostenibili. Come Adepp siamo pronti a raccogliere le opportunità che ci offre per ampliare il welfare agli iscritti.
Nel piano ci sono linee di indirizzo che recepiamo da subito perché corrispondono alla nostra visione e alle nostre pratiche condivise, e che sono ad esempio: investire sulla qualità del lavoro come garanzia della tenuta del flusso contributivo e delle prestazioni, sostenere la formazione altamente specialistica, la ricerca e lo sviluppo tecnologico, semplificare e razionalizzare norme e procedure per snellire i processi e ridurre i tempi, favorire la cosiddetta rivoluzione verde negli investimenti, negli stili di vita, nella valorizzazione delle risorse e del territorio.
Restano ad oggi alcuni nodi da sciogliere su misure che sembrano piuttosto dettate dall’urgenza, ma mancano di una visione prospettica che tenga conto della complessità dei problemi. Mi riferisco in particolare alla riforma della medicina territoriale che scaturisce dalle linee di indirizzo del Pnrr.
A un anno di distanza dall’esplosione del Covid, siamo entrati in una logica di evoluzione adattativa che ha messo al centro dell’attenzione il territorio. La pandemia infatti ha dimostrato come la mancata coordinazione tra territorio, ospedali e medicina pubblica sia stato un fattore critico nella capacità di risposta e cura del Servizio sanitario nazionale, sebbene sia stata la prima volta che affrontavamo un problema di tale entità.
In realtà, Carlo Urbani, il medico che identificò per la prima volta la Sars e ne morì, lanciò un messaggio: quando si incontra un agente infettivo sconosciuto e altamente rischioso, per prima cosa bisogna isolare gli ammalati, proteggere gli operatori, altrimenti diventano untori, e chiudere tutto. In realtà un po’ alla volta lo abbiamo fatto, ma con un ritardo che abbiamo pagato in termini di vite umane.
Di fronte alle vulnerabilità della medicina del territorio, il piano nazionale di ripresa ha previsto una riforma del sistema di cure che si articola sostanzialmente in tre presìdi: la casa della persona (intesa come l’abitazione del paziente), la casa della comunità e l’ospedale della comunità. Il tutto supportato da telemedicina e gestione efficiente dei dati.
Per i casi gravi e cronici si investe sull’assistenza e sulle cure direttamente al domicilio delle persone, mentre con l’ospedale di comunità si crea un luogo delle cure intermedie fra il territorio e l’ospedale vero e proprio.
Il luogo di primo accesso per le esigenze di salute del cittadino, secondo l’intento del Pnrr, diventerebbe invece la Casa della Comunità e non più lo studio del medico di medicina generale. L’obiettivo dichiarato è rafforzare l’equità d’accesso, la vicinanza territoriale e la qualità dell’assistenza. I numeri parlano chiaro: in Italia ci sarà una Casa della Comunità ogni 115 chilometri quadrati. In breve, mentre oggi c’è un sistema di studi medici diffuso capillarmente sul territorio, per il domani si immagina che il cittadino possa percorrere diversi chilometri per raggiungere il punto di accoglienza, dove accanto ai medici e a vari operatori sanitari e sociali, assumeranno un ruolo gestionale importante i nuovi infermieri di famiglia.
Rispetto al disegno di questo nuovo assetto, credo che togliere all’individuo, in qualsiasi zona del territorio italiano – dalle città alle campagne – la referenza di un medico di fiducia, fisicamente vicino e che operi in un team multiprofessionale integrato, non possa essere il futuro del sistema sanitario nazionale. Il rapporto fiduciario è essenziale per garantire un riferimento certo alle persone quando hanno o ritengono di avere un problema di salute ed è dimostrato che i servizi sanitari nazionali che hanno un buon sistema di assistenza primaria – tenendo da parte gli ospedali che sono il campo delle cure secondarie – poi riescono a conciliare l’esigenza di contenere i costi portando a dei risultati di salute accettabili.
La priorità oggi è agire per potenziare il territorio e la prossimità per essere più aderenti ai bisogni. In quest’ottica è impensabile che si perda la possibilità di scegliere il medico di famiglia di fiducia e che non si possa più averlo territorialmente vicino. Ragionando in termini di diritti fondamentali, come sono ad esempio la salute e la giustizia, come non si può prescindere dalla libertà dalla libertà di scegliersi il legale di fiducia, così non si può togliere la libertà di scegliersi il proprio medico. Penso che si debba invece valutare un piano di riorganizzazione alternativo che preveda piuttosto un sistema integrato: le case di comunità dovranno diventare punti di riferimento (hub) rispetto agli studi sul territorio (spoke), raggi periferici che saranno diffusi capillarmente e nei quali si potrà continuare a esercitare la medicina fiduciaria e di prossimità.
Parallelamente si dovrà mettere in campo una svolta qualitativa che preveda una formazione universitaria mirata alla medicina dei problemi e la specializzazione nella medicina di famiglia che renda merito alle competenze certificate. Nulla potrà essere più come prima anche in termini di specializzazioni professionali e di utilizzo e amplificazione grazie alla tecnologia. Penso che con gli strumenti tecnologici e con un livello qualitativo più uniforme, più strutturato, si potrà garantire capillarità, fiduciarietà e integrazione professionale.
Tutto questo non potrà prescindere da scelte di investimento sostenibili per realizzare il concetto di One Health in tutte le sue componenti: un’unica salute per l’uomo, l’animale, l’ambiente e il clima. È un impegno che le Casse Adepp hanno preso da tempo e sul quale chiediamo un supporto anche da chi esercita una funzione regolatoria nei nostri riguardi, perché si arrivi a una semplificazione e razionalizzazione nel momento dei controlli e nel momento degli indirizzi di attività.