di Maurizio Gardini, Presidente Confcooperative
Ci sono tutte le condizioni per agganciare l’obiettivo crescita del 5%. Gli indicatori economici tornati positivi, l’entusiasmo determinato dalla vittoria della Nazionale di calcio agli Europei che rappresenta una grande promozione del brand Italia, dal cibo al turismo, anche se occorre terminare il prima possibile la campagna vaccinale per scongiurare nuove limitazioni imposte da un ritorno dei contagi. Ma soprattutto c’è il bazooka del Pnrr. Un’occasione unica, irripetibile per riformare l’economia del nostro Paese e per eliminare le zavorre che ancora troppo spesso frenano la crescita di una delle eccellenza del Made in Italy, le nostre produzioni agroalimentari.
L’export ha rappresentato la ciambella di salvataggio per le ambizioni di sviluppo e di futuro di molte imprese, oltre che del Paese negli anni più duri della crisi. Ma per continuare a essere leva di sviluppo occorre colmare il gap infrastrutturale, sia materiale e che immateriale, che ci separa dai principali competitor. Il ritardo infrastrutturale pesa per 60 miliardi di mancato export.
Con 476 miliardi di euro l’Italia è il 9° Paese al mondo per export, ma occupa solo il 21° posto nella classifica della Banca Mondiale sul Logistic Performance Index.
Il made in Italy, in particolare proprio quello agroalimentare è un brand che identifica l’Italian style con l’eccellenza, ricercata e apprezzata in tutto il mondo tanto che l’Italian sounding, solo nel food, è di oltre 90 miliardi di euro.
Usare la leva dell’adeguamento infrastrutturale per innovare profondamente la nostra economia non è una delle opzioni per far ripartire il nostro paese, ma rappresenta lo snodo principale da cui passa il futuro del sistema Italia.
Un sistema, il nostro, che rispetto alle principali economie del Vecchio continente negli ultimi 20 anni ha perso troppo terreno Tra il 2000 e il 2019 l’Italia ha perso 380 miliardi di ricchezza (pari ad almeno 10 leggi finanziarie in tempi pre Covid) rispetto alla crescita media dell’Area Euro. Nello stesso periodo l’economia del nostro Paese è cresciuta solo del 3,9%, contro una media degli Stati con la moneta unica del 26%.
Nella fase più dura della crisi finanziaria, fra il 2007 e il 2013, l’Italia ha perso l’8,5% di Pil, contro l’1,5% degli altri Paesi. Negli anni tra il 2014 e il 2019 ha lasciato sul terreno 85 miliardi di euro
Una spesa in infrastrutture da 192,4 miliardi entro il 2030 dovrebbe generare un effetto da 666 miliardi e attivare occupazione per 4,2 milioni di persone. È come se potessimo disporre ogni anno di 61 miliardi aggiuntivi di prodotto e 383mila occupati in più. Un investimento che riguarda le infrastrutture di trasporto e, in proporzioni più contenute, interventi nel settore idrico e il programma di rinascita urbana. I risultati di questo “shock da domanda”, concentrato su spese destinate a opere di ingegneria civile, portano a quantificare in: 450 miliardi di euro gli effetti diretti (beni e servizi intermedi) e indiretti sulla produzione (attivando cioè il settore industriale, i servizi alle imprese, i trasporti, il commercio, ecc. nella fornitura di servizi e beni per la produzione); 216 miliardi gli effetti indotti sulla domanda (aumento di consumi di beni e servizi stimolati dalla maggiore disponibilità di reddito attraverso la creazione di nuova occupazione).
Considerando che il 70% delle risorse del Piano verrà destinato a investimenti pubblici, per un valore pari a 156,7 miliardi di euro per il periodo 2021-2026, e provando ad applicare le ipotesi di fondo dell’analisi di impatto svolta dal MEF sull’ultimo Documento di economia e Finanza, lo “shock” da investimenti potrebbe portare a un effetto “leva” di quasi 200 miliardi in sei anni, ai quali aggiungere l’effetto “domanda” di 96,1 miliardi. In totale nel periodo si otterrebbe un incremento del valore della produzione complessiva (valore aggiunto e consumi intermedi) pari a 296 miliardi di euro e 1,9 milioni di occupati attivati (unità di lavoro a tempo pieno).