di Onofrio Rota, Segretario Generale Fai Cisl
La domanda di protezione sociale indotta dalla crisi sanitaria ha messo in luce il ruolo positivo di Enpaia. Ma le sfide future per la Fondazione sono il consolidamento dell’assistenza sanitaria integrativa, della previdenza complementare e degli ammortizzatori sociali; e gli investimenti orientati alla sostenibilità.
La crescita del settore primario in tutto il Novecento è stata caratterizzata dallo sviluppo di un importante sistema integrativo di sicurezza sociale e da una virtuosa bilateralità, che affondano le proprie radici nel valore della solidarietà, nei principi dell’autonomia, nelle pratiche delle buone relazioni industriali e sindacali. Il caso dell’Enpaia, delle sue capacità di rispondere alle esigenze dei lavoratori e dei produttori, ci parla di tutto questo. Eppure, ancora molto resta da fare per attutire i colpi inferti dalla pandemia, ammodernare il Sistema-Paese e affrontare il futuro con una progettualità forte, trasparente, condivisa.
La crisi ha acuito il bisogno di costruire forme di protezione sociale meno dispendiose per le risorse pubbliche, di garantire servizi ritagliati su misura per la persona, di esercitare una bilateralità che non si limiti a strategie difensive ma si faccia protagonista attiva della vita economica del Paese. È positivo in questo senso il ruolo esercitato dall’Enpaia. Al di là delle singole misure, autonomamente scelte di volta in volta dal CdA, come è giusto che sia, è importante riflettere su quale evoluzione potrà avere il ruolo dell’Ente nel contesto di crisi che stiamo affrontando per realizzare un welfare che sia sempre più partecipativo, radicato in forme di governance in cui il ruolo dei corpi intermedi non può che essere primario. Alla luce delle sfide future, due assi sembrano essere prioritari: da un lato, il consolidamento dell’assistenza sanitaria integrativa, della previdenza complementare, degli ammortizzatori sociali e, dall’altro, obiettivi di investimento orientati maggiormente verso la sostenibilità, che sarà uno dei temi più rilevanti anche dentro le logiche del Recovery Plan.
Ad oggi, le risorse previste per la ripartenza sono state implementate e ammontano a circa 300 miliardi, con una quota dichiarata di investimenti al 70% e tre assi di sviluppo indicati dall’Europa: digitalizzazione e innovazione, sostenibilità ambientale e transizione verde, e poi equità, coesione e sostenibilità sociale. Per tutto il settore primario e le filiere connesse si tratta di un’opportunità unica per migliorare tanti aspetti in termini di occupazione e qualità del lavoro, produttività e competitività, investimenti green. Perché se è vero che la nostra agricoltura è ai vertici in Europa per sostenibilità, valore aggiunto, occupati, pur essendo la meno sussidiata, è anche vero che sta pagando a caro prezzo alcuni difetti strutturali piuttosto gravi. Pensiamo alla bassa innovazione tecnologica, all’eccessiva burocrazia, alle sacche di concorrenza sleale e lavoro irregolare, al dissesto idrogeologico, con il suo impatto devastante in termini di perdite di profitto e di vite umane, alla mancanza di sicurezza, che assegna all’agricoltura un triste primato quanto a incidenti mortali e lavoro gravoso. A tutto questo potremmo aggiungere alcune arretratezze del sistema normativo, che ad esempio non tutela a sufficienza i braccianti quando perdono giornate di lavoro a causa delle calamità naturali, così come non permette loro di maturare giornate utili per accedere agli ammortizzatori sociali nei periodi di quarantena. È anche in base a queste criticità oggettive, se come Fai Cisl abbiamo chiesto a Governo e Parlamento di rafforzare il Piano nazionale di ripresa e resilienza proprio rispetto al settore primario e all’ambiente, andando oltre gli 1,8 miliardi di euro previsti per l’agricoltura e i 3,77 miliardi per la manutenzione idrogeologica.
La prova da affrontare è enorme, non certo impossibile. Vanno ancora approfonditi i singoli temi del Recovery, e andranno collegate le risorse a un vero piano organico di riforme strutturali che coinvolgano lavoro e occupazione, infrastrutture materiali e digitali, e poi sanità e pubblica amministrazione, scuola e giustizia, fisco e politiche sociali. Chiaramente, soltanto una gestione progettuale partecipata, frutto di un confronto costante e concreto con le parti sociali, potrà garantire al Paese il buon esito di questa difficile sfida. Una prova da non sottovalutare, perché rappresenta davvero la possibilità di costruire un nuovo modello economico, in cui non sia concepibile alcuna prosperità economica senza coesione sociale o alcuna crescita svincolata dalla tutela del bene comune, dell’ecosistema, della solidarietà intergenerazionale. A maggior ragione serve un Recovery agroalimentare, che faccia leva sul settore primario come asset strategico del Paese, per una visione di lungo periodo sostenuta da relazioni industriali avanzate e parti sociali forti, competenti, rappresentative, che anche attraverso la bilateralità di settore e tutto il sistema integrativo per la sicurezza sociale si facciano promotrici di un welfare solido, moderno, capace di rispondere, con puntualità e lungimiranza, ai bisogni dei lavoratori e delle loro famiglie.